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A stare al titolo della raccolta, Poesie illegittime, questi versi non sarebbero mai dovuti essere, figli di padre ignoto a cui l’autrice li dedica interamente. Sono nati dall’«amore mentale» con lui (come da epigrafe, la Poesia illegittima di Vivian Lamarque), e se hanno qualcosa della sua «aria straniera» non mancano però di farci rincontrare la loro madre, la Laura Baici dei precedenti Il più bello dei mari e Piccolo trattato di magia.
Il tratto forestiero, seppur non sconosciuto, è la passione. Sono passionali questi versi illegittimi, un sentimento tanto più intenso perché vissuto nell’attesa, nella mancanza, nella promessa non mantenuta: «forse non ho provato / ancora / tutti gli stati di vertigine // come affondare / nelle tue braccia / mentre mi baci // oppure mi dici parole / che non comprendo / quando respiro / il tuo odore». È un amore urgente e senza difese, in cui l’ingordigia di avere accanto l’amico, di mano e carezza gentile, è nutrita dall’assenza di lui. I due protagonisti dei versi non abitano quasi mai nelle stesse poesie, istantanee fatte di ‘prima’ e di ‘poi’, centellinato il ‘mentre’, che ogni tanto punteggia con colorata tenerezza questa raccolta dalla forte unità di spirito e tono.
E il tono qui è il silenzio. Perché questa è una poesia di silenzi, il silenzio di lui che tace e non (cor)risponde, il silenzio che lei colma scrivendo. La parola silenzio ricorre quasi in ogni componimento, sola o accompagnata dalle volute del sigaro, dalla natura che è paesaggio dell’anima. Ed è in questi silenzi, negli azzurri, nel vento, negli orizzonti ottobrini, nel mare, nel dolore che è schianto ma non vince (la poesia vivere è simbolica) che da lettrice ho ritrovato, in gradazioni ovviamente diverse, l’autrice che già conoscevo. È un ritorno gradito.
Non tornano invece le illustrazioni che avevano accompagnato le poesie delle due precedenti raccolte, solo un tratto di blu e oro per la copertina. È giusto così, lasciare che nulla se non il verso e il suo ritmo maneggino la materia del vuoto, dell’assenza, della vertigine. Sì, della vertigine. Quando infatti sembra ormai che predomini un senso di stasi («aspetto / anche se so / che è inutile / aspettare»), allora parte la trottola della vertigine, che è insieme condizione fisica e metafora sentimentale. Parte un girotondo di quattordici poesie in quattordici giorni, una narrazione che attrae il lettore conducendolo alle soglie della conclusione. Il mare ubriaco e la giostra che gira fin quasi a far finire la vita in un fosso man mano si arrestano in un nuovo equilibrio, e di fronte a quel «tutt’oggi / [che] promette pioggia / ma non viene» lo spirito è mutato: è sempre lui quella pioggia, ma lei ha finito l’attesa.
Tra le assenze di questi versi ce n’è però una che conta più di ogni altra, quella della rassegnazione. Non appartiene all’autrice e al suo poetare, e tanto meno al suo pensare. Con rassegnazione mai è la poesia della raccolta che più ho amato, corre in un crescendo/diminuendo ipnotici dall’apertura «ti penso sempre» alla chiusa «con rassegnazione mai», nel mezzo una ridda ordinata di sostantivi.
Un pensiero così è una fortuna. Per chi è pensato e ancor più per chi pensa.
Federica Reali