Non sono brava ad aspettare, ma ho dovuto imparare a farlo. Aspettare che passi. Aspettare che la vita torni normale.
Nel 2016 la polmonite, nel 2017 il colpo della strega, nel 2019 il fuoco dei nervi che mi divorava le gambe.
Aspettare. Che passi.
Aspettare che torni. Sapere che non puoi tornare. Non sapere se tornerai.
Allora prendo in prestito una tua espressione e provo a stare.
Provo a stare nelle mani tagliate, nella soddisfazione di un lavoro ben fatto, nel gesto del pulire, nel riposo dopo la fatica, nella schiena che urla, nel sole che mi scalda, nella malinconia, nella gratitudine per i buoni amici, nella nostalgia, nella condivisione profonda, nelle lacrime che scendono, nel merlo che viene a fare colazione, nella rabbia feroce, nella meraviglia continua.
Provo a non aspettare, a non aspettarti. E mi sembra di riuscirci, quasi. Di poter vivere, e basta, senza piani, senza futuro.
Vivere come il merlo, come il fiore nel prato, come il sole e la pioggia. Come l’erba che vince l’asfalto.
Ma se dove sei ora io non posso consolarti, se la terra gira intorno e nient’altro, ecco svelato l’inganno: forse ho imparato ad aspettare, di certo non a stare.
Non riesco ad essere quest’erba che vuole solo vivere.
Non aspettarti è troppo difficile.